venerdì 22 marzo 2013

Donne, pubblicità, stereotipi: fatte con lo stampino


Qualche tempo fa sono stata invitata da Se non ora quando a parlare, in una piazza romana, di stereotipi femminili e pubblicità. Bella sfida: come raccontare in breve, in modo semplice e capace di arrivare a tutte in una piazza affollata, un argomento complesso, controverso e ad alta intensità emotiva com’è quello che riguarda il difficile rapporto tra donne e comunicazione pubblicitaria?
Ci ho messo quasi una settimana per mettere a punto questa presentazione che parla di donne, pubblicità, stereotipi. Volevo che facesse passare alcuni punti chiari.
Il primo punto: la pubblicità non nasce “nel vuoto”. Rispecchia e amplifica e semplifica gli usi e i costumi e i pregiudizi più diffusi. Trasmette il gusto dei suoi referenti aziendali. Si esprime all’interno del più ampio sistema dei media. Questo non vuol dire che la pubblicità sia innocente: ha responsabilità grandi proprio perché è efficace anche quando diffonde e rafforza modelli di ruolo arcaici, sistemi di disvalori, stereotipi deleteri.
Ma la pubblicità può cambiare sul serio, e diventare più rispettosa delle donne solo se, insieme alla consapevolezza degli addetti ai lavori e delle imprese committenti, cresce anche la sensibilità del pubblico.
Nessuna azienda vuole disgustare i suoi clienti proponendo una comunicazione sgradita. Un buon modo rapido – lo sto dicendo da trent’anni, e non mi stancherò di ripeterlo – per interrompere una campagna offensiva, e in generale per migliorare l’intero sistema, è protestare. Farsi sentire. Ma attenzione: bisogna farlo senza veicolare ulteriormente le campagne negative.
Alcune aziende spregiudicate usano lo scandalo e la provocazione come amplificatori dell’investimento, secondo la vecchia logica del “purché se ne parli”:  se una campagna vi offende, scrivete all’azienda. All’agenzia. All’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. Ai giornali. Al sindaco. Protestate sui social media (su Facebook, tra l’altro, sono attivi diversi  eccellenti gruppi di donne che fanno un gran lavoro di sensibilizzazione). Boicottate i prodotti. Ma non postate la campagna su Facebook. Non contribuite a farla girare.
Il secondo punto: come capita col vino e l’olio, coi romanzi, i film e le scarpe e gli articoli di giornale e mille altre cose, saper riconoscere la qualità buona o cattiva è indispensabile anche quando ci si trova a giudicare una comunicazione pubblicitaria. Dire che “la pubblicità offende le donne” è generico e, credetemi, lascia il tempo che trova. Per difendersi sul serio dalla cattiva pubblicità come cittadini, e per pretendere come clienti che le aziende non producano cattiva pubblicità, bisogna imparare a distinguere. Bisogna stanare gli esempi negativi, spiegarli, disinnescarli.
Alcune campagne sono fastidiose semplicemente perché sono sciocchine o invasive e troppo ripetute. Altre sono irritanti perché rappresentano stereotipi di genere e comportamenti arretrati: tutte quelle madri sorridenti, in piedi davanti alla famigliola seduta, tutte uguali, in cucine tutte uguali, riducono le donne a figurine ancillari, fatte con lo stampino.
Altre campagne ancora usano i corpi (e spesso parti del corpo): mercificano il corpo per vendere. Altre  usano del tutto a sproposito il richiamo sessuale. E alcune sono veramente trucide, violente e offensive.
Vorrei chiarire una cosa importante: il problema non è il corpo nudo in sé, ma il corpo nudo usato a sproposito. Il problema non è la sessualità, ma la provocazione sessuale. Più diventiamo capaci di leggere le immagini, di smontarle, di capire come funzionano, meglio ci possiamo difendere protestando e denunciando.
Un altro modo per difendersi è riconoscere e apprezzare le buone pratiche: sono meno di quanto vorremmo, ma esistono. Dobbiamo valorizzare lo humour, l’intelligenza, la visione, la capacità di raccontare storie capaci di  presentare prodotti in modo piacevole, divertente, amichevole, sorprendente, e di farlo presentando buoni modelli di ruolo e di comportamento.
L’adci, un club che non rappresenta tutta la pubblicità, ma un ampio gruppo di professionisti  sensibili alla qualità del messaggio pubblicitario, oltre un anno fa ha raccolto dettagliate linee-guida in questo Manifesto deontologico.
Si diceva una volta “certi spot sono migliori del film”. Ed eccoci al terzo punto: la qualità creativa media della pubblicità italiana è modesta. In un passato recente  (per esempio quando, qualche anno fa, tutte le maggiori compagnie telefoniche si sono concentrate su cloni di ragazzotte scollate e scosciate, investendo nella diffusione di queste immagini una quantità di soldi) ha toccato livelli davvero bassi.
Ancora oggi non è così frequente vedere spot migliori del film (all’inizio degli anni Ottanta è successo: ma è stata una fioritura creativa brevissima) o pagine pubblicitarie che si fanno guardare con piacere. L’attuale, profonda crisi creativa del mondo della pubblicità rispecchia la crisi di visione delle aziende, e la più ampia crisi di progetto del paese.
Ma raccontando le donne contemporanee, valorizzandone il ruolo, la pubblicità può efficacemente contribuire allo sviluppo di un nuovo immaginario e di una nuova visione, più fertile.
Le aziende devono sentire questa richiesta, forte e chiara.
Le agenzie e i professionisti della pubblicità devono sapere che la vigilanza collettiva su quanto producono è diventata più stretta, puntuale ed esperta. Ci sono diversi segnali incoraggianti in questo senso. Ma il cammino è ancora lungo e dobbiamo percorrerlo tutte (e tutti) insieme.  Annamaria Testa

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