È un dato
consolidato nella storia, ma di recente consapevolezza. Solo dagli anni
‘90 si è iniziato a parlare di «femmicidio», per definire l’omicidio
volontario di donne «perché donne», e poi di «femminicidio», per
indicare ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la
donna, al di là dell’omicidio. Come accade sempre con il linguaggio,
nominare femmicidio e femminicidio ha permesso di renderli evidenti,
riconosciuti, esistenti. Di svelare il rapporto tra violenza e
stereotipi, tra violenza e mentalità maschiliste che hanno da sempre
governato il mondo È nei modelli di famiglia, in concezioni del
rapporto di coppia fondati sulla gerarchia, in un’idea dell’amore come
possesso che si nascondono le ragioni culturali che portano alle
violenze verso le donne, spesso proprio verso le donne «amate».
In
Italia la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché
perpetrate in un contesto culturale maschilista, dove la violenza
domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono
economicamente dipendenti dai responsabili della violenza, dove
persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono
adeguate. Quando uno Stato fallisce nel perseguire femmicidio e
violenze, l’impunità non solo umilia ancor più chi la vittima, ma
manda un messaggio alla società , lascia intendere che la violenza nei
confronti delle donne è accettabile, inevitabile.
La
ratifica della Convenzione di Istanbul, appena completata, è un primo
passo per invertire la rotta: riconosce la violenza sulle donne e
domestica come violazione dei diritti umani, sancisce il principio
secondo cui ogni persona ha il diritto di vivere libera dalla violenza e
pone agli Stati il vincolo concreto del raggiungimento
dell’uguaglianza tra i sessi de jure e de facto. Occorre ora
implementare il corpus normativo. Per questo con molte altre senatrici e
molti senatori, di tutti i gruppi parlamentari, abbiamo proposto
l’istituzione di una Commissione bicamerale sui fenomeni di femmicidio
e femminicidio, che risponda al dovere istituzionale, oltre che morale,
di domandarsi se è stato fatto tutto quello che si poteva fare o se
occorre un cambiamento più strutturale nelle azioni di contrasto alla
violenza verso le donne. La Commissione lavorerà per rilevare le
dimensioni del fenomeno, individuare le misure necessarie, monitorare
l’efficacia dell’azione istituzionale.
Serve
poi modificare la cultura del Paese, superare la resistenza di un
potere maschile e maschilista, prevenire discriminazioni e sessismi
prima che degenerino in meccanismi patologici, intervenire con
l’educazione. La scuola e i libri di testo, spesso in modo
inconsapevole, sono sessisti: trasmettono stereotipi e comportamenti
che favoriscono le gabbie comportamentali di genere. Occorre invece
incoraggiare, proprio a partire dalla scuola, la cultura del rispetto
delle identità di genere e il superamento degli stereotipi sessisti. E
adottare il codice «Polite» che prescrive per un linguaggio rispettoso
delle differenze di genere per i libri di testo.
Serve
insomma un’azione di sistema, che unisca misure immediate - come il
sostegno ai centri antiviolenza - e un cambiamento culturale e
normativo più profondo e lungo, per sradicare ogni forma di
discriminazione e violenza di genere e garantire l’uguaglianza
sostanziale delle donne come prevista dall’articolo 3 della
Costituzione. Abbiamo una responsabilità enorme, che guarda al
presente, a chi oggi subisce o rischia di subire violenze, e guarda al
futuro, alle bambine e ai bambini cui lasciare un Paese in cui crescere
liberi dalla violenza. di
Valeria Fedeli,
pubblicato il
28 giugno 2013
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