giovedì 9 febbraio 2012

Le quote e la Costituzione

di Chiara Martuscelli  
Laureata in giurisprudenza e lettere, dal 1999 è consigliere parlamentare. Dal 2004 lavora al Servizio studi della Camera dei deputati, dove è stata responsabile dei Dipartimenti Lavoro e Bilancio e politica economica. Attualmente è responsabile del Dipartimento Giustizia


07/07/2011
Nel 1995 la Corte costituzionale si esprime contro le quote di genere, nel 2010 lo scenario si ribalta. Un articolo che ci guida attraverso i passaggi giuridici fatti in questo lasso di tempo. Cambiamenti che  riflettono la mutata percezione sociale da una parte e lo scenario europeo dall'altra
Il problema della rappresentanza politica è fondamentale. Non si può affrontare il tema della presenza delle donne di quote nei consigli di amministrazione delle imprese o nei ruoli apicali delle pubbliche amministrazioni senza affrontare il cuore della questione, senza partire dalla radice: la presenza delle donne nei luoghi della decisione politica.
Se la società è composta più o meno in ugual misura da uomini e donne (secondo l’ultimo dato Istat, le donne sono il 51,5% dei residenti in Italia), di conseguenza ci si aspetterebbe che le istituzioni rappresentative, che sono – o dovrebbero essere – lo specchio di quella società,  fossero composte in misura più o meno analoga da uomini e donne.
Nel campo della politica, il problema non è tanto quello della capacità, del merito, della competenza, ma più semplicemente quello della rappresentanza: un’insufficiente rappresentanza di donne all’interno delle istituzioni rappresentative impoverisce il confronto dialettico che all’interno di quelle istituzioni deve svolgersi, limita lo spettro di risposte che quelle istituzioni sono tenute a fornire alle istanze che provengono dal Paese.
Non è tanto una questione di numeri, di percentuali, di quote, il problema è di tipo qualitativo ed è un problema di qualità della democrazia, intesa come capacità della democrazia di dare risposte, di trovare soluzioni alle domande che emergono dalla società.
Nel campo della politica più che negli altri, può essere sostenuta l’idea che equality = quality, cioè che la parità è sinonimo di qualità.

Per quanto riguarda il nostro paese, è noto che la strada delle quote di genere in campo elettorale sembrava sbarrata dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 422 del 1995. Con quella sentenza, la Corte spazzava via tutte le disposizioni normative che avevano introdotto le quote per le elezioni nazionali, regionali e locali. Ciò faceva sulla base dell’assunto che, in campo elettorale, il principio di uguaglianza doveva essere inteso rigorosamente formale. Secondo il ragionamento della Corte, gli articoli 3 e 51 della Costituzione imporrebbero un parità astratta: i diritti di elettorato passivo sono rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali ed è esclusa qualsiasi differenziazione in base al sesso, sia che essa riguardi l’eleggibilità (quote di risultato, quali erano previste dalla legge elettorale nazionale) sia che riguardi la candidabilità (quote di lista, quali quelle previste dalla legge sulle elezioni amministrative).
La sentenza ha lasciato il segno. Tuttora, appena si comincia a parlare di quote, una delle obiezioni più frequenti è quella di una supposta incostituzionalità. Eppure dal 1995 molta acqua è passata sotto i ponti, molta strada è stata fatta.
Innanzitutto il quadro costituzionale è mutato, anche in reazione alla posizione espressa dalla Corte.
Le riforme costituzionali del 2001 hanno riaffermato con forza il principio della parità di accesso alle cariche elettive in ambito regionale.
L’articolo 117, settimo comma (introdotto dalla legge costituzionale n. 3/2001), prevede che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.” Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle regioni ad automonia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001. 
La modifica più rilevante è senz’altro quella dell’articolo 51, primo comma, Cost. secondo cui tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Con la legge costituzionale n. 1 del 2003 è stato inserito un secondo periodo, secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne.
Del resto non si può non tener conto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Carta di Nizza, che dopo il trattato di Lisbona ha assunto ormai valore vincolante per il nostro ordinamento.
L’articolo 23 della Carta, inserito nel Capo III relativo all’uguaglianza, è molto chiaro: «La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.
Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.»
L’articolo 23 accoglie dunque un’idea di uguaglianza intesa in senso sostanziale, una parità effettiva, per raggiungere la quale sono pienamente ammissibili misure che prevedono vantaggi di un genere rispetto ad un altro, purché si tratti naturalmente del genere svantaggiato.
Da un punto di vista giuridico, ci si può interrogare sul grado di vincolatività di questo principio del nostro ordinamento, in una materia quale quella elettorale che non rientra nell’ambito delle competenze dell’Unione.
Non si può però non tener conto del fatto che l’articolo 23 della Carta di Nizza muta lo scenario costituzionale di base e può fornire una chiave di lettura, un punto di riferimento per l’interpretazione del nostro articolo 51, il quale ha invece una formulazione piuttosto generica laddove prevede che la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità per l’accesso alle cariche elettive.
Il mutamento del quadro costituzionale ha avuto i suoi effetti anche sulla giurisprudenza della Consulta, che ha profondamente rivisto il suo orientamento in tema di quote.
Già nella sentenza n. 49 del 2003 - dopo le riforme costituzionali del 2001 relative agli ordinamenti regionali ma prima della modifica dell’articolo 51 - la Corte ha superato la sentenza del 1995 che aveva affermato che il sesso non poteva essere rilevante ai fini della candidabilità.
Ma la pronuncia più importante è la sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativa all’introduzione della cd. doppia preferenza di genere da parte della legge elettorale della Campania. Dopo la sentenza del 2003, le leggi elettorali di numerose regioni, come fra poco vedremo, avevano introdotto le quote di lista. In Campania, si decide di fare qualcosa di più, modificando il sistema di espressione delle preferenze. Si introduce la possibiità di esprimere due preferenze e l’elettore è libero di esprimere una o due preferenze, ma nel caso in cui scelga di esprimerne due deve indicare due candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza. Molti erano pronti a giurare sull’incostituzionalità di questo sistema, che incide non solo sulla formazione delle liste ma anche sul momento di espressione di voto da parte dell’elettore.
Invece la Corte respinge la questione di legittimità costituzionale, abbandonando definitivamente la visione formalistica del principio di uguaglianza e richiamando l’uguaglianza sostanziale.
Secondo la Corte «il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale.
Si tratta di un ribaltamento a 360 gradi delle motivazioni del 1995. Non basta una parità astratta, che non tiene conto del fatto che la limitata parteciapzione delle donne alla vita politica è dovuta a condizionamenti di natura culturale economica, sociale; occorre una parità effettiva, sostanziale e quindi ben vengano le misure che vanno in questa direzione.

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