La riforma del lavoro
17 maggio 2012
Nel 2012, l’Italia è
entrata in una nuova fase recessiva, ad appena due anni da quella subìta nel
2009 per l’impatto della crisi mondiale. Le conseguenze sul mercato del lavoro
sono pesantissime, con un forte aumento della precarietà e della
disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno e fra le donne e i giovani.
La situazione è
drammatica perché
i ritardi strutturali e l’antico vincolo del debito pubblico, nel contesto
delle nuove e più severe regole europee di bilancio, azzerano gli spazi per
politiche espansive di contrasto alla recessione. L’aggiustamento fiscale,
necessario per consolidare i conti e rassicurare i mercati finanziari, riduce
la crescita economica e la minore crescita, a sua volta, provoca un automatico
peggioramento della finanza pubblica. Una spirale perversa che condiziona le
prospettive di crescita anche per i prossimi anni e che solo una politica ambiziosa
può spezzare, una politica per lo sviluppo sostenibile incentrata su riforme
coraggiose capaci di trasformare i fattori di debolezza in punti di forza.
Una delle principali fragilità dell’economia italiana
è, come ampiamente riconosciuto da studi e statistiche, il sottoutilizzo del
lavoro femminile, un ritardo grave nei confronti dell’Europa e dei paesi
avanzati. Il lavoro delle donne nel nostro paese è ostacolato, infatti, dalla
mancanza di efficaci politiche per la conciliazione lavoro-famiglia, dalla carenza
dei servizi sociali, dalla tutela inadeguata e/o parziale della maternità,
dalla quasi totale assenza di politiche fiscali di vantaggio sia per
l’occupazione che per l’imprenditoria femminile.
Si stima che se il tasso di occupazione
femminile italiano, attualmente il più basso fra i paesi europei (con
l’eccezione di Malta), raggiungesse il target comune indicato dall’Unione
europea, il Pil aumenterebbe di ben 7 punti percentuali. Le donne potrebbero,
quindi, dare un contributo importante per portare l’Italia fuori dal tunnel
della crisi e liberarla dalla condanna alla stagnazione perenne.
Ma per elevare
il tasso di occupazione femminile è indispensabile attivare una forte politica
di investimenti nel welfare. E’ vero, come si è appena visto, che gli enormi
vincoli finanziari cui è sottoposta la nostra politica economica rendono
difficilissimo trovare le risorse per costruire nuovi asili nido, estendere i
servizi sociali, etc…Tuttavia, la questione fondamentale è quella di cambiare
l’approccio finora seguito e mettere al centro dell’azione di governo l’agenda
delle donne.
Il Governo
Monti, all’atto del suo insediamento, ha mostrato di voler voltare pagina,
impegnandosi per una politica economica capace di trasformare la attuale debolezza del
lavoro femminile in una straordinaria opportunità di crescita.
La riforma
del lavoro è un’occasione mancata per lo sviluppo
Tuttavia, alla prima -
e assolutamente fondamentale – prova dei fatti, le azioni del Governo si sono dimostrate ben
al di sotto delle iniziali dichiarate ambizioni.
Il disegno
di legge di riforma del mercato del lavoro, presentato il 23 marzo scorso dal
Governo e attualmente in discussione in Parlamento, poteva
essere, infatti, l’occasione per imprimere una svolta alla politica economica
del Paese e mettere in moto le potenzialità di sviluppo legate all’occupazione
femminile.
Con una
certa (e amara) sorpresa, constatiamo, invece, che la riforma è estremamente timida: il lavoro
delle donne non è al centro della riforma e non la guida, anzi, è trattato come
una questione accessoria cui viene dedicato pochissimo spazio.
Il contrasto al lavoro
precario, che è in prevalenza femminile e giovanile, viene incentivato, ma
senza un vero disegno riformatore; il sostegno alla maternità e alla
genitorialità è quasi inesistente; il sistema di protezione sociale che si
prospetta resta incentrato sul lavoro dipendente a tempo indeterminato, in
prevalenza, maschile e adulto.
La riforma risulta,
così, diretta più al mercato del lavoro tradizionale che a quello emergente,
guarda più al passato che al futuro; non favorisce né le donne né i giovani, né
la formazione di nuove famiglie. Dà poco alle giovani donne tra venti e
trentacinque anni che sono dentro la spirale dei lavori precari e che
vorrebbero uscirne per intraprendere un progetto di vita e scegliere di essere madri senza farne una missione esclusiva.; ma, dà poco anche
alle donne inserite nel mondo del lavoro nella pienezza delle garanzie vigenti
che si aspettano dalle istituzioni un cambio di passo capace di accogliere e
supportare le loro maggiori aspirazioni.
Peraltro, le donne sono
quelle che pagano di più la crisi, in termini di precarietà, minore potere
d’acquisto e perdita di occupazione. Anche la recente riforma previdenziale,
che ha introdotto il metodo contributivo per le nuove pensioni, comporterà per
le donne, soggette, più degli uomini, al lavoro precario e/o discontinuo, una
pensione bassissima, con gravi rischi di impoverimento futuro. Le donne del
settore pubblico, poi, hanno già subìto un aumento significativo (e improvviso)
della propria età pensionabile.
Mentre si continuano,
quindi, a chiedere sacrifici e rinunce alle donne, si rinviano, causa la
permanente austerità di bilancio, gli interventi volti a migliorarne le
condizioni di vita e ad aumentarne il ruolo nell’economia.
La riforma del lavoro
è, in conclusione, l’ennesima dimostrazione di una politica rinunciataria che,
penalizzando le donne, penalizza lo sviluppo stesso del paese.
Alcuni aspetti critici
della riforma
Le osservazioni
che seguono riguardano il ddl di riforma del lavoro così come è entrato in
Parlamento, essendo ancora in corso l’iter di approvazione. Tuttavia, non riteniamo,
alla luce degli emendamenti fin qui proposti sia dal Governo che dai relatori
di maggioranza, che le modifiche che verranno introdotte possano alterare
significativamente l’impianto generale della riforma delineato nel ddl.
Con questa cautela, ci
concentriamo innanzitutto su alcuni aspetti del ddl che riguardano la
flessibilità in entrata. Al di là della controversia relativa alle modifiche
introdotte dal ddl sulla flessibiltà in uscita (art.18 dello Statuto dei
lavoratori) e dell'accordo finale che è stato raggiunto, ci preme, infatti, la
questione di coloro che lavorano in condizioni di precarietà e senza alcuna
tutela e che non sono coperti dalle garanzie offerte dall’art. 18. Come
certificato dai dati Istat, la maggioranza di questi lavoratori “atipici” sono
di sesso femminile.
Osserviamo subito che
l’obiettivo dichiarato della riforma di ridurre la flessibilità in entrata,
privilegiando le forme contrattuali a tempo indeterminato e scoraggiando
l’utilizzo improprio dei contratti atipici, appare molto indebolito dalla
prevista permanenza di 46 forme possibili di rapporto di lavoro. Se è giusto
considerare le esigenze produttive delle imprese, legate sia alle fluttuazioni
del ciclo che ai processi di riorganizzazione, altrettanto giusto è tenere
conto dei diritti dei lavoratori (in termini di congedi parentali, formazione,
flessibiltà di orari, etc) che risultano notevolmente affievoliti in tali tipi
di contratti. Il contrasto alla precarietà, dove, come si è detto, la
componente femminile è preponderante, è totalmente affidato alla lotta agli
abusi e, quindi, condizionato dalla reale disponibilità di efficaci strumenti
di controllo.
Un’altra questione di
particolare importanza riguarda gli ammortizzatori sociali. La riforma introduce
a partire dal 2017 nuove forme di ammortizzatori, con l’obiettivo dichiarato di
ampliare le tutele attualmente esistenti. Anche in questo caso, la realtà della
norma è diversa. Infatti, i nuovi ammortizzatori, in particolare, l’Assicurazione
Sociale per l’Impiego (ASpI), sono rivolti solo ai lavoratori dipendenti (anche
se estesi ad apprendisti e artisti, finora non coperti da alcuna garanzia),
mentre resteranno escluse dalla tutela tutte le altre forme di lavoro. In
sostanza, l’ASpI lascerà senza rete la quasi totalità delle lavoratrici e dei
lavoratori precari: in un’ottica di genere, non dà nessuna garanzia a una giovane
sui trenta-trentacinque anni con un lavoro precario “temerariamente” pronta a
fare una scelta di maternità. Per di più, l’ASpI, non essendo finanziata con la
fiscalità generale bensì con l’aumento delle aliquote pagate da imprenditori e
lavoratori, allarga il già ampio cuneo fiscale esistente, agendo come una tassa
sul lavoro e quindi scoraggiandolo.
Le nostre perplessità
sulla riforma, osservata sempre dal punto di vista delle donne, aumentano con
riferimento proprio agli articoli (pochi) del ddl dedicati esplicitamente all’occupazione
femminile.
Per quanto riguarda la
tutela della maternità e, in particolare, la normativa contro le dimissioni in
bianco, è certamente positivo che il ddl affronti la pratica barbara di far
firmare al momento dell'assunzione una falsa lettera di dimissioni da tirar
fuori al momento opportuno: quando una lavoratrice è in gravidanza o in
malattia o quando un lavoratore, magari immigrato, non sia più gradito. Tuttavia, la procedura di contrasto all’abuso prevista
nel ddl appare complicata e non è chiaro se si applichi solo al rapporto di
lavoro subordinato o, viceversa, si estenda a tutte le forme di contratto. Ma
soprattutto, vista la gravità del reato che si configura con la pratica delle
dimissioni in bianco, non sembra sufficiente infliggere, come recita la norma, una
sanzione amministrativa al datore di lavoro, senza prevedere, in parallelo, il
reintegro della lavoratrice e/o del lavoratore.
Per quanto riguarda il sostegno
alla genitorialità, le norme del ddl, pur andando nella giusta direzione, sono
altamente insufficienti. Due aspetti da sottolineare, in merito al congedo di
paternità obbligatorio e ai voucher per baby sitting.
. Il congedo di paternità
obbligatorio dovrebbe rispondere all’obiettivo di ripristinare le pari
opportunità sul mercato del lavoro. I datori di lavoro, infatti, preferiscono
assumere giovani uomini piuttosto che giovani donne, perché sanno che le donne
possono essere obbligate ad andare in maternità. Cioè, a parità di capacità,
alle donne viene imposto un handicap: sul mercato del lavoro le donne capaci
che vogliono diventare madri vengono superate dagli uomini meno capaci. Il
mercato del lavoro quindi non è efficiente, non premia più il merito. E ciò si
risolve in un danno per la collettività intera. Aver previsto, come recita il
ddl, un congedo di paternità obbligatorio per soli tre giorni (di cui due sottratti
al congedo spettante alla madre) risulta quasi una provocazione, tenuto conto in
particolare che le direttive europee lo
fissano in almeno quindici giorni.
Con la concessione di
voucher per baby-sitting, la riforma vuole incentivare il ritorno della madre
al lavoro. Tuttavia, i voucher, in quanto utilizzabili dalla lavoratrice madre
in sostituzione del congedo parentale (che attualmente può essere goduto sia
dal padre che dalla madre per un totale di 10 mesi che diventano 11 nel caso in
cui il padre usufruisca di almeno 3 mesi di congedo), potrebbero disincentivare
la condivisione delle responsabilità familiari. Peraltro, la norma, che sarebbe
di particolare importanza per le donne che svolgono lavori precari (nei quali
l'utilizzo dei congedi parentali è sostanzialmente “virtuale”), si applica solo
nell’ambito del lavoro dipendente. In ogni caso, il sistema dei voucher non può
sostituire l’offerta pubblica di servizi sociali, se mai accompagnarla.
A questo proposito, le
recenti iniziative assunte dal Governo per incrementare l’offerta di servizi
sociali per l’infanzia e per gli anziani tramite una accorta riprogrammazione
dei fondi strutturali europei sembrano andare nella giusta direzione.
Per il Gruppo W/L,
Antonella Crescenzi
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