martedì 22 maggio 2012

Lo sviluppo dell’Italia passa per il lavoro femminile




SNOQ /CPNGruppo Welfare/Lavoro 
La riforma del lavoro
17 maggio 2012

  
Nel 2012, l’Italia è entrata in una nuova fase recessiva, ad appena due anni da quella subìta nel 2009 per l’impatto della crisi mondiale. Le conseguenze sul mercato del lavoro sono pesantissime, con un forte aumento della precarietà e della disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno e fra le donne e i giovani.
La situazione è drammatica perché i ritardi strutturali e l’antico vincolo del debito pubblico, nel contesto delle nuove e più severe regole europee di bilancio, azzerano gli spazi per politiche espansive di contrasto alla recessione. L’aggiustamento fiscale, necessario per consolidare i conti e rassicurare i mercati finanziari, riduce la crescita economica e la minore crescita, a sua volta, provoca un automatico peggioramento della finanza pubblica. Una spirale perversa che condiziona le prospettive di crescita anche per i prossimi anni e che solo una politica ambiziosa può spezzare, una politica per lo sviluppo sostenibile incentrata su riforme coraggiose capaci di trasformare i fattori di debolezza in punti di forza.
Una delle principali fragilità dell’economia italiana è, come ampiamente riconosciuto da studi e statistiche, il sottoutilizzo del lavoro femminile, un ritardo grave nei confronti dell’Europa e dei paesi avanzati. Il lavoro delle donne nel nostro paese è ostacolato, infatti, dalla mancanza di efficaci politiche per la conciliazione lavoro-famiglia, dalla carenza dei servizi sociali, dalla tutela inadeguata e/o parziale della maternità, dalla quasi totale assenza di politiche fiscali di vantaggio sia per l’occupazione che per l’imprenditoria femminile.
 Si stima che se il tasso di occupazione femminile italiano, attualmente il più basso fra i paesi europei (con l’eccezione di Malta), raggiungesse il target comune indicato dall’Unione europea, il Pil aumenterebbe di ben 7 punti percentuali. Le donne potrebbero, quindi, dare un contributo importante per portare l’Italia fuori dal tunnel della crisi e liberarla dalla condanna alla stagnazione perenne.
Ma per elevare il tasso di occupazione femminile è indispensabile attivare una forte politica di investimenti nel welfare. E’ vero, come si è appena visto, che gli enormi vincoli finanziari cui è sottoposta la nostra politica economica rendono difficilissimo trovare le risorse per costruire nuovi asili nido, estendere i servizi sociali, etc…Tuttavia, la questione fondamentale è quella di cambiare l’approccio finora seguito e mettere al centro dell’azione di governo l’agenda delle donne.
 Il Governo Monti, all’atto del suo insediamento, ha mostrato di voler voltare pagina, impegnandosi per una politica economica capace di trasformare la attuale debolezza del lavoro femminile in una straordinaria opportunità di crescita.

La riforma del lavoro è un’occasione mancata per lo sviluppo

Tuttavia, alla prima - e assolutamente fondamentale – prova dei fatti,  le azioni del Governo si sono dimostrate ben al di sotto delle iniziali dichiarate ambizioni.
Il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, presentato il 23 marzo scorso dal Governo e  attualmente in discussione in Parlamento, poteva essere, infatti, l’occasione per imprimere una svolta alla politica economica del Paese e mettere in moto le potenzialità di sviluppo legate all’occupazione femminile.
Con una certa (e amara) sorpresa, constatiamo, invece, che la riforma è estremamente timida: il lavoro delle donne non è al centro della riforma e non la guida, anzi, è trattato come una questione accessoria cui viene dedicato pochissimo spazio.
Il contrasto al lavoro precario, che è in prevalenza femminile e giovanile, viene incentivato, ma senza un vero disegno riformatore; il sostegno alla maternità e alla genitorialità è quasi inesistente; il sistema di protezione sociale che si prospetta resta incentrato sul lavoro dipendente a tempo indeterminato, in prevalenza, maschile e adulto.
La riforma risulta, così, diretta più al mercato del lavoro tradizionale che a quello emergente, guarda più al passato che al futuro; non favorisce né le donne né i giovani, né la formazione di nuove famiglie. Dà poco alle giovani donne tra venti e trentacinque anni che sono dentro la spirale dei lavori precari e che vorrebbero uscirne per intraprendere un progetto di vita e scegliere di essere madri senza farne una missione esclusiva.; ma, dà poco anche alle donne inserite nel mondo del lavoro nella pienezza delle garanzie vigenti che si aspettano dalle istituzioni un cambio di passo capace di accogliere e supportare le loro maggiori aspirazioni.
Peraltro, le donne sono quelle che pagano di più la crisi, in termini di precarietà, minore potere d’acquisto e perdita di occupazione. Anche la recente riforma previdenziale, che ha introdotto il metodo contributivo per le nuove pensioni, comporterà per le donne, soggette, più degli uomini, al lavoro precario e/o discontinuo, una pensione bassissima, con gravi rischi di impoverimento futuro. Le donne del settore pubblico, poi, hanno già subìto un aumento significativo (e improvviso) della propria età pensionabile.
Mentre si continuano, quindi, a chiedere sacrifici e rinunce alle donne, si rinviano, causa la permanente austerità di bilancio, gli interventi volti a migliorarne le condizioni di vita e ad aumentarne il ruolo nell’economia.
La riforma del lavoro è, in conclusione, l’ennesima dimostrazione di una politica rinunciataria che, penalizzando le donne, penalizza lo sviluppo stesso del paese.


Alcuni aspetti critici della riforma

Le osservazioni che seguono riguardano il ddl di riforma del lavoro così come è entrato in Parlamento, essendo ancora in corso l’iter di approvazione. Tuttavia, non riteniamo, alla luce degli emendamenti fin qui proposti sia dal Governo che dai relatori di maggioranza, che le modifiche che verranno introdotte possano alterare significativamente l’impianto generale della riforma delineato nel ddl.
Con questa cautela, ci concentriamo innanzitutto su alcuni aspetti del ddl che riguardano la flessibilità in entrata. Al di là della controversia relativa alle modifiche introdotte dal ddl sulla flessibiltà in uscita (art.18 dello Statuto dei lavoratori) e dell'accordo finale che è stato raggiunto, ci preme, infatti, la questione di coloro che lavorano in condizioni di precarietà e senza alcuna tutela e che non sono coperti dalle garanzie offerte dall’art. 18. Come certificato dai dati Istat, la maggioranza di questi lavoratori “atipici” sono di sesso femminile.
Osserviamo subito che l’obiettivo dichiarato della riforma di ridurre la flessibilità in entrata, privilegiando le forme contrattuali a tempo indeterminato e scoraggiando l’utilizzo improprio dei contratti atipici, appare molto indebolito dalla prevista permanenza di 46 forme possibili di rapporto di lavoro. Se è giusto considerare le esigenze produttive delle imprese, legate sia alle fluttuazioni del ciclo che ai processi di riorganizzazione, altrettanto giusto è tenere conto dei diritti dei lavoratori (in termini di congedi parentali, formazione, flessibiltà di orari, etc) che risultano notevolmente affievoliti in tali tipi di contratti. Il contrasto alla precarietà, dove, come si è detto, la componente femminile è preponderante, è totalmente affidato alla lotta agli abusi e, quindi, condizionato dalla reale disponibilità di efficaci strumenti di controllo.
Un’altra questione di particolare importanza riguarda gli ammortizzatori sociali. La riforma introduce a partire dal 2017 nuove forme di ammortizzatori, con l’obiettivo dichiarato di ampliare le tutele attualmente esistenti. Anche in questo caso, la realtà della norma è diversa. Infatti, i nuovi ammortizzatori, in particolare, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI), sono rivolti solo ai lavoratori dipendenti (anche se estesi ad apprendisti e artisti, finora non coperti da alcuna garanzia), mentre resteranno escluse dalla tutela tutte le altre forme di lavoro. In sostanza, l’ASpI lascerà senza rete la quasi totalità delle lavoratrici e dei lavoratori precari: in un’ottica di genere, non dà nessuna garanzia a una giovane sui trenta-trentacinque anni con un lavoro precario “temerariamente” pronta a fare una scelta di maternità. Per di più, l’ASpI, non essendo finanziata con la fiscalità generale bensì con l’aumento delle aliquote pagate da imprenditori e lavoratori, allarga il già ampio cuneo fiscale esistente, agendo come una tassa sul lavoro e quindi scoraggiandolo.
Le nostre perplessità sulla riforma, osservata sempre dal punto di vista delle donne, aumentano con riferimento proprio agli articoli (pochi) del ddl dedicati esplicitamente all’occupazione femminile.
Per quanto riguarda la tutela della maternità e, in particolare, la normativa contro le dimissioni in bianco, è certamente positivo che il ddl affronti la pratica barbara di far firmare al momento dell'assunzione una falsa lettera di dimissioni da tirar fuori al momento opportuno: quando una lavoratrice è in gravidanza o in malattia o quando un lavoratore, magari immigrato, non sia più gradito.  Tuttavia, la procedura di contrasto all’abuso prevista nel ddl appare complicata e non è chiaro se si applichi solo al rapporto di lavoro subordinato o, viceversa, si estenda a tutte le forme di contratto. Ma soprattutto, vista la gravità del reato che si configura con la pratica delle dimissioni in bianco, non sembra sufficiente infliggere, come recita la norma, una sanzione amministrativa al datore di lavoro, senza prevedere, in parallelo, il reintegro della lavoratrice e/o del lavoratore.
Per quanto riguarda il sostegno alla genitorialità, le norme del ddl, pur andando nella giusta direzione, sono altamente insufficienti. Due aspetti da sottolineare, in merito al congedo di paternità obbligatorio e ai voucher per baby sitting.
. Il congedo di paternità obbligatorio dovrebbe rispondere all’obiettivo di ripristinare le pari opportunità sul mercato del lavoro. I datori di lavoro, infatti, preferiscono assumere giovani uomini piuttosto che giovani donne, perché sanno che le donne possono essere obbligate ad andare in maternità. Cioè, a parità di capacità, alle donne viene imposto un handicap: sul mercato del lavoro le donne capaci che vogliono diventare madri vengono superate dagli uomini meno capaci. Il mercato del lavoro quindi non è efficiente, non premia più il merito. E ciò si risolve in un danno per la collettività intera. Aver previsto, come recita il ddl, un congedo di paternità obbligatorio per soli tre giorni (di cui due sottratti al congedo spettante alla madre) risulta quasi una provocazione, tenuto conto in particolare che le direttive europee  lo fissano in almeno quindici giorni.
Con la concessione di voucher per baby-sitting, la riforma vuole incentivare il ritorno della madre al lavoro. Tuttavia, i voucher, in quanto utilizzabili dalla lavoratrice madre in sostituzione del congedo parentale (che attualmente può essere goduto sia dal padre che dalla madre per un totale di 10 mesi che diventano 11 nel caso in cui il padre usufruisca di almeno 3 mesi di congedo), potrebbero disincentivare la condivisione delle responsabilità familiari. Peraltro, la norma, che sarebbe di particolare importanza per le donne che svolgono lavori precari (nei quali l'utilizzo dei congedi parentali è sostanzialmente “virtuale”), si applica solo nell’ambito del lavoro dipendente. In ogni caso, il sistema dei voucher non può sostituire l’offerta pubblica di servizi sociali, se mai accompagnarla.
A questo proposito, le recenti iniziative assunte dal Governo per incrementare l’offerta di servizi sociali per l’infanzia e per gli anziani tramite una accorta riprogrammazione dei fondi strutturali europei sembrano andare nella giusta direzione.




 Per il Gruppo W/L,
Antonella Crescenzi


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